“Mon Roi”: il film che devi assolutamente vedere se pensi di avere a che fare con il narcisismo patologico di un partner
C’è un tipo di amore che non esplode, ma divora. Che non arriva piano, ma ti travolge come un’onda calda, promettendo vita, intensità, senso. Poi, lentamente, ti lascia senza fiato. Mon Roi di Maïwenn racconta proprio questo: la relazione tra Tony ed Georgio, una storia che inizia come una favola moderna e finisce come una lenta perdita di sé.
Mon Roi è un film che parla di dipendenza emotiva, di abuso narcisistico e del coraggio silenzioso di chi prova a salvarsi quando l’amore diventa veleno.
Da qui, ogni scena è una tappa del viaggio di Tony — dalla seduzione alla distruzione, fino alla risalita.
Un percorso che, pur essendo suo, appartiene a molte.
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L’amore che svuota
C’è un momento, in Mon Roi di Maïwenn, in cui tutto diventa chiaro: l’amore tra Tony (Emmanuelle Bercot) e Georgio (Vincent Cassel) non è un incontro, ma un vortice. Un legame che seduce, inghiotte, e poi svuota. Il film non parla solo di passione o dipendenza affettiva — racconta la lenta distruzione di sé che nasce quando si ama un narcisista patologico.
Georgio è il perfetto seduttore: affascinante, carismatico, istintivo, pieno di vita. Sa come far sentire Tony unica, vista, irresistibile. Ma dietro la sua intensità si nasconde un vuoto, una fame di controllo e adorazione. Ogni gesto d’amore diventa uno strumento di potere. Ogni attenzione, una moneta di scambio.
È così che il narcisista patologico opera: non ama davvero, si nutre del riflesso che l’altro gli restituisce. Finché l’altro non diventa più utile, o peggio — inizia a vedere.
Tony, nel corso del film, attraversa tutte le fasi tipiche di chi vive questo tipo di legame: l’idealizzazione, la confusione, la colpa, la disperazione. Il suo corpo, ferito dopo un incidente, diventa metafora della mente ferita da anni di manipolazione emotiva. La riabilitazione fisica è anche quella psichica: imparare a camminare di nuovo senza dipendere da chi l’ha distrutta.
La discesa di un amore
All’inizio di Mon Roi, Tony incontra Georgio in modo quasi cinematografico: lui è brillante, affascinante, più grande, pieno di vita. La guarda come se fosse l’unica donna nella stanza — e per un po’, lo è davvero. È la fase dell’idealizzazione, quella in cui il narcisista costruisce il suo incantesimo. Ti studia, capisce di cosa hai fame — attenzione, protezione, entusiasmo — e te lo dà, moltiplicato per dieci. Tony si lascia travolgere: si sposa, ha un figlio, abbandona la sua stabilità per orbitare intorno a quell’uomo che sembra tutto.
Poi il ritmo cambia. Georgio inizia a mostrare il suo vero volto: imprevedibile, geloso, ironico fino all’umiliazione. Quando Tony prova a mettere un confine, lui la ridicolizza o la colpevolizza. C’è una scena crudele in cui, dopo una lite, lui la lascia da sola per giorni, poi torna come se nulla fosse — e lei, stremata, lo accoglie di nuovo. È il ciclo tipico dell’abuso narcisistico: punizione e premio, gelo e fuoco. Ti spezza e poi ti consola, per farti restare.
Il figlio, nato in questo equilibrio fragile, diventa il pretesto per tenere viva la relazione, ma anche il punto di rottura. Tony è esausta, sempre più isolata. Mentre lui continua a comportarsi come un eterno adolescente — seduttivo, brillante, irresponsabile — lei affonda nella confusione e nella colpa. Cassel riesce a rendere Georgio quasi irresistibile anche nei momenti peggiori, ed è questo che rende il film così vero: il narcisista non è un villain, è qualcuno che ti conquista proprio mentre ti ferisce.
Parallelamente, il corpo di Tony diventa il suo specchio. Dopo un grave incidente sugli sci, entra in un centro di riabilitazione. Mentre il suo corpo si ricompone, anche la sua mente inizia a guarire. Nelle sedute di fisioterapia, nei silenzi, nelle confessioni con gli altri pazienti, riaffiora la lucidità che l’amore tossico le aveva tolto.
Un film senza giudizi
Il film alterna presente e passato come se la memoria fosse una ferita che si riapre. E Tony, passo dopo passo, impara che l’amore non è dolore, non è perdono infinito, non è “capire sempre l’altro”. L’amore è anche sapere quando chiudere la porta.
Alla fine, non c’è una rivincita spettacolare. Solo lei, di nuovo in piedi, un po’ più lenta, un po’ più consapevole. È un finale silenzioso, ma pieno di forza.
Perché l’uscita da un abuso narcisistico non è mai un colpo di scena: è una rinascita lenta, quotidiana, fatta di piccoli “no” che finalmente valgono più di qualunque “ti amo”.
Mon Roi non offre giudizi netti. Cassel interpreta un uomo che non è un mostro, ma un essere umano incapace di amare senza dominare. Il suo fascino è reale, e lo è anche il dolore che infligge. Il film ci costringe a guardare quella zona grigia dove amore e abuso si confondono, dove il cuore fatica a riconoscere che ciò che brucia non è passione, ma autodistruzione.
Ciò che abbiamo provato molte, in pratica.